Prima ancora che le Boiler Room diventassero uno dei parametri di misura del talento e della capacità di un artista, prima che qualsiasi magazine online iniziasse ad attrezzarsi per avere un proprio canale podcast, l’unico modo che gli appassionati di musica avevano per riascoltare un set di una serata a cui avevano (oppure no) partecipato era quello di mettere le mani su una sua registrazione. Sporche, imprecise e, spesso e volentieri, ottenute senza il consenso del dj, queste registrazioni hanno giocato un ruolo chiave nel percorso di “crescita” che ha caratterizzato ciascuno di noi, almeno fin quando il processo di digitalizzazione non è giunto a completa maturazione, finendo per cambiare definitamente e irrimediabilmente il nostro modo di fruire e vivere la musica.
Se mai decideste di chiedermi quali sono in assoluto le registrazioni mie preferite, ci metterei meno di un secondo a rispondere che al primo, al secondo e al terzo gradino del podio c’è il leggendario back-to-back tra Richie Hawtin e Ricardo Villalobos del 16 aprile 2005 nella sala Globus del Tresor, per quello che è stato l’ultimo party della storia della vecchia location del club berlinese. Ciò che colpisce dell’intera e lunghissima selezione non è tanto la tecnica dei due, quanto la modernità delle scelte dei due: all’interno delle cinque ore registrate (il loro dj set durò almeno il doppio) possiamo infatti ascoltare alcune delle pietre miliari della techno, tra cui “Marionette”, “The Tunnel”, “Positive Education” e “Model8”, brani che sin dalla loro primissima pubblicazione hanno saputo condizionare l’evoluzione e lo sviluppo del genere fino ai giorni nostri.
Ricordo ancora quando, ascoltandolo per la prima volta, rimasi ipnotizzato dall’energia e dal coraggio di “Minus” di Robert Hood, intento a ragionare su quanto questo capolavoro riuscisse, nella sua essenzialità, a sprigionare una carica a cui nemmeno il migliore dei nostri “eroi moderni” potrebbe ambire.
“Minus” è un brano del 1994 – inserito in “Internal Empire”, il secondo album del produttore di Detroit dopo “Waveform Transmission Vol. 2” dell’anno precedente – e succede al periodo formativo trascorso osservando Mike Banks e Jeff Mills, quando il collettivo Underground Resistance era semplicemente un duopolio e il giovane Hood si barcamenava tra i primi EP a firma The Vision e le collaborazioni con i due timonieri, su tutte il rap di “Panic”, dal mitico “Riot EP” (UR010, 1991).
I primi anni ’90 al fianco di “Mad” Mike – che lo prende sotto la sua ala dopo aver ascoltato un demo grazie a un amico comune, Mike Clark (aka Agent X) – e Jeff Mills sono fondamentali affinché si instauri in Robert Hood la consapevolezza di quella che deve essere la direzione della sua musica. Tra il 1991 e il 1993 escono su Tresor, uno per anno, gli album “X-101”, “X-102” e “X-103”; una trilogia di lavori in cui, pian piano, comincia a prendere le misure con il suo suono semplice ma potente, perfettamente aderente alla cultura musicale della città e al tempo stesso aperto e futurista. È qui che vengono gettate le basi di quel minimalismo di cui diventerà massimo esponente e rappresentante una volta lasciato al timone degli Underground Resistance il solo Mike Banks grazie alla pubblicazione di “Internal Empire”, appunto, e di “Minimal Nation” su Axis.
È una svolta epocale. L’esperimento Hardwax getta le basi per la nascita di M-Plant, la sua creatura, il mezzo con cui esplorare quel suono che ormai è talmente suo da sentirlo scorrere nelle vene e praticare ciò che sembra riuscirgli meglio di qualsiasi altra cosa: sottrarre. Se da un lato Jeff Mills, anch’esso fuori dagli Underground Resistance dopo “X-103”, è il primo artista a fare della techno una forma d’arte, Robert Hood la trasforma nella colonna sonora della sua Detroit.
Zingales, nel suo libro “Techno”, definisce come meglio non si potrebbe il suono di Robert Hood: “Se Mills porta la techno al suo snodo più importante, anche narrativamente, Hood è il vero maestro di minimalismo. Nei suoi pezzi c’è solo l’essenziale. Una batteria, un basso e i rumori della vita che si rincorrono in una serie di microspasmi sonori.”
C’è qualcosa di estremamente vero e fisico nella musica di Hood, un qualcosa in grado di tracciare un solco netto e indelebile tra lui, i Drexciya (che raccolgono il suo testimone all’interno del collettivo UR) e gli stessi Banks e Mills. Non c’è il futuro nei suoi synth e nei suoi groove, ma l’here-and-now della sua città.
Recentemente, riferendosi alla sua ottava e ultima raccolta, “Motor: Nighttime World 3” su Music Man Records (2012), Hood prova a descrivere l’umanità della sua città, un luogo dal cuore grande, ma al tempo stesso spezzato. Ne parla come di un posto “non esattamente disperato, ma comunque impregnato da quel sentimento…dalla progressiva attitudine a spingersi oltre, andare avanti, tipica della gente del sud che vede nell’industria e nel suono della Motown il sogno americano.”
Già, la Motown: Robert Hood sa bene cosa voglia dire crescere e guardare al domani con il rhythm and blues e il soul della sua città. Berry Gordy, tra l’altro, è il cugino di suo nonno e questo legame – di sangue prima ancora che spirituale – fa sì che la sua famiglia sia interamente e inesorabilmente assorbita dalla musica. Mamma Hood è una cantante, lo zio un manager e il papà ha una passione talmente sconfinata da spingerlo a suonare il pianoforte, la tromba e la batteria. Siamo alla fine degli anni ’70, Robert è nel pieno della sua adolescenza e la cosa più naturale che possa accadergli è quella di prendere in mano uno strumento e suonare. Il suo amore per la tromba, però, viene presto accantonato una volta scoperto il vinile e tutta la magia ad esso collegata e una volta appurato che l’oggetto della sua curiosità, prima ancora che il pentagramma, sono gli arrangiamenti, la musicalità e gli incastri tra i diversi strumenti.
The Vision, quindi, nasce per la sua curiosità e il suo zelo fuori dal comune all’interno del banco dei pegni del suo quartiere dove, entusiasta, riesce a recuperare e a metter mano sulla strumentazione sufficiente per la registrazione dei suoi primi demo, lavori su cui riversare tutto il calore della musica nera di cui è costituito il suo DNA. È il suo anno zero, il primo passo di quel percorso che lo porta in breve tempo all’attenzione di Mike Banks e alla pubblicazione di “Minimal Nation” per Jeff Mills, col quale, oltre ai lavori su Tresor, inaugura il progetto H&M con cui producono gli storici “Tranquilizer EP” e “Drama EP”, sempre su Axis. Il suo contributo alla label di Mills è incredibile: le visioni che i due hanno della techno hanno un impatto devastante sul genere, dimostrando quanto Detroit abbia pronta una valida alternativa a Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson e alle loro Metroplex, Transmat e KMS.
Ma ciò che veramente costituisce l’elemento di rottura con quanto proposto fino a quel momento dai tre pionieri di Belleville – e dai primissimi lavori a firma Underground Resistance – è la ricerca ossessiva di un minimalismo travolgente e irresistibile, un blues geometrico e futuristico che ha in M-Plant la sua chiave di volta.
La label viene inaugurata nel 1994 con “The Protein Valve” e sin da quell’EP comincia un percorso che attraversa tutta la carriera di Robert Hood: escono qui (e su Drama, la sottolabel) i suoi lavori più alti, non importa se nelle vesti di Floorplan o Monobox. Hood lo definisce “grey area sound”, riferendosi a quella patina che tinge di grigio l’atmosfera di Detroit. Smoog e inquinamento, fabbriche e palazzi disabitati, il centro cittadino abbandonato a se stesso. Tutto parla attraverso gli accordi della sua Roland Juno e alle release firmate M-Plant.
La label vive tra il 1994 e il 2002 una prima fase rigogliosa e prolifica, seguendo di pari passo (specie nei primi anni) la fase più incisiva e innovativa di Robert Hood. Nonostante l’impegno sia mostruoso e le release vengano prodotte a getto continuo – tra queste alcune pietre miliari del genere, come “Realm EP”, “Stereotype”, “The Greatest Dancer” e “Addict” -, l’americano trova le forze per pubblicare “Nighttime World Volume 1” su Cheap. Il jazz, la notte, la deep-house, il futuro che sfreccia veloce lasciando spiazzati di fronte alla più grande e affascinante contraddizione hoodiana: come fa tutto questo ridurre all’osso ad essere tanto rigoglioso e vivo?
Come avrà modo di raccontare proprio sulle nostre pagine con la sua bellissima intervista, dopo l’uscita di “Wire To Wire” su Peacefog la sua produzione musicale subisce un drastico calo. Troppo frenetica la scena, troppo pericoloso quel digitale che, di lì a poco, avrebbe finito per fagocitare il mercato discografico; allora meglio prendersi una pausa e fare un bel respiro, ché nulla può provare a contraffare il vero spirito della techno. La definizione di cosa sia ce la da lo stesso Hood: “c’è molto gospel, molto soul, c’è molto approccio sperimentale – tutto questo mescolato assieme. Lo spirito della techno… Ecco, ci sono: per me lo spirito della vera techno è Berry Gordy che incontra Salvador Dalì.”
Dopo tre EP su Music Man Records, uno per anno tra il 2005 e il 2007, ed è di nuovo il momento di riprendere in mano M-Plant: piovono ristampe, album (“Paradise” e il già citato “Motor: Nighttime World 3”), versioni “Re-Plant” e, mano a mano che la techno torna al centro della scena underground mondiale, Robert Hood torna a vestire i panni del protagonista. Nel 2014, l’anno in cui M-Plant festeggia i vent’anni di musica con una tripla compilation, esce “Never Grow Old”, che viene suonata in ogni angolo del pianeta e fa dell’americano l’artista dell’anno.
Il reverendo Hood è tornato al centro del villaggio insieme alla sua chiesa, pronto a scrivere nuove pagine di una carriera ultra-ventennale, che ha in Dekmantel l’ultimo capitolo in ordine cronologico. Tre esibizioni in altrettante edizioni del festival olandese – che hanno avuto il loro apice nella chiacchieratissima Boiler Room dello scorso agosto insieme alla figlia Lyric, esperimento talmente riuscito da concretizzarsi nuovamente nell’LP “Victorious” – hanno portato all’annuncio del nuovo progetto Paradygm Shift e alla pubblicazione di tre EP e un album proprio su Dekmantel.
Sono passati quasi tre decenni da quando Robert Hood si presentò al mondo della techno come The Vision, ma la forza delle sue idee, la sua intraprendenza, l’energia della sua musica è quella di un ventenne pronto a gettarsi cuore in mano nella mischia: “Io sono profondamente innamorato di quello che faccio, del talento che ho avuto in dono. Il mio dono è mettere le mie mani sui giradischi e sui cdj e suonare per la gente, vedere che si illuminano. È una sensazione bellissima, incredibile, e lo è ogni volta.”
Le Illustrazioni sono di Emanuele Ercolani: appassionato di videogiochi, fumetti e arti marziali, è l’illustratore del progetto Nerdquadro e i suoi lavori più recenti li trovate qui.
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